Proposta Radicale 10 2023
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Superare la paura di essere radicali

di Marco Pannella

…Quel che mi interessa è che ci siano altri convegni, altre riunioni, altri dibattiti come questo. Proprio perché ritengo che il nostro sia un corpo estremamente vivo sono sempre consapevole del rischio che il corpo vivo sia ammazzato, muoia. Quel che mi importa è che queste attività continuino, e perché continuino non possiamo probabilmente permetterci che fallisca nemmeno una sola di queste nostre riunioni o una sola delle nostre azioni. Perché veramente cattivi tempi corrono. E quando dico cattivi, dico mediocri: tempi nei quali nulla in fondo rischia di essere formalmente fatto fuori, neppure più censurato, ma costantemente invece falsato, degradato, attraverso una violenza, continua e serrata, con cui si cerca di rendere irriconoscibili le identità e i volti di coloro che si parlano e si cerca perfino ormai, di truccare i suoni e le parole che corrono nella società, fra di noi stessi. Direi quasi che in queste riunioni stiamo celebrando un mistero: il mistero di dieci, quindici, venti anni radicali, cioè della durata di un tentativo che è stato fino a noi, cioè fino a quando non ci siamo assunti la responsabilità di dar corpo a certe idee, regolarmente battuto in dimensioni temporali molto più brevi. Questo tentativo è stato perdente durante il fascismo in particolare con Gobetti e con Rosselli. È stato perdente nell’edizione resistenziale di “Giustizia e libertà”’. È stato perdente nel dopoguerra, nella triplice speranza di estrema sinistra liberale, di riproposizione libertaria del socialismo e di riproposizione dell’esperienza liberalsocialista: con il fallimento della sinistra liberale, del partito d’azione e delle componenti libertarie del socialismo.

Forse queste ultime sono troppo ignorate, forse si sottovaluta quanto significassero nel nostro paese personaggi apparentemente secondari come Umberto Calosso, che apparvero per un momento all’interno del socialismo italiano, ed erano in realtà coloro che davano voce allora, usciti dal tunnel del fascismo, ad alcuni temi che sono i nostri temi oggi: negli anni dal ‘46 al ‘48, al “Convegno dei cinque”, che erano un po’ il luogo formale, più vivo e popolare del dibattito politico, sociale, civile, Calosso parlava allora di libero amore, di pacifismo, di antimilitarismo, di preti e di religione, di liberazione umana e sociale in modo inusitato. E non a caso uno degli episodi e delle battaglie in cui uscimmo non sconfitti (ma poi non potemmo averne altre) fu quando riuscimmo ad assicurare, all’inizio degli anni cinquanta, nell’Università di Roma nel suo insieme fascista ma di già a direzione ufficialmente antifascista, che Calosso potesse tenere delle lezioni. C’è qui Giuliano Rendi. Ricordo Giuliano, nonviolento già allora, che però per difendermi rompeva un ombrello sulla testa di Caradonna, per difendere quei contro-corsi (pensate un po’ quanto rivoluzionari eppure quanto temuti!) sul Manzoni e sull’Alfieri; perché potessero essere tenuti da quell’obiettore di coscienza, da un traditore, da un disertore socialista. Che altro era stato infatti Calosso quando negli anni quaranta dava voce all’Italia antifascista, la voce di Londra attraverso la quale molti di noi – giovani balilla, figli della lupa, avanguardisti – ascoltando la radio del regime, ogni tanto udivamo quella stranissima voce pirata che ci diceva cose inimmaginabili piccole e sconvolgenti, e ce le diceva, da radicale, nella forma della narrativa e non della saggistica?…

Questa digressione iniziale era per dire: anche Calosso, e quelli come lui del Partito Socialista, fatti fuori come il partito d’azione, come la sinistra liberale, come “Giustizia e libertà”. E come sono stati, prima ghettizzati, e poi presto sepolti e non di rado sepolti con menzogna e estreme ingiurie al significato della loro vita, i Rossi e i Capitini, i Calamandrei e i Salvemini, (così come con turpe violenza le vicende di Silone e di Gramsci, di ogni “eresia” cristiana o comunista, socialista o liberale). E poi rinasce la speranza radicale con il Partito Radicale nel 1955, ma già come speranza autolimitantesi: la aristocratica, cieca autosoddisfazione di tanti di noi che leggevamo o scrivevamo “Il Mondo”, una società di quarantamila, cinquantamila persone al massimo, nel nostro paese, “libere” come “liberi”’ erano già sotto il fascismo, il Croce di scrivere, e migliaia di leggere la “Critica” di Laterza.

Ho ascoltato con molta attenzione la spessa, importante e positiva relazione di Angiolo Bandinelli. C’è stato solo un punto in quella relazione in cui ho sentito scivolare la nostra continuità, la mia, la tua, Angiolo, con quella dei nostri anziani. È stato quando hai parlato della necessità di “restaurare” certi valori: questo era l’errore di fondo dei radicali di quella generazione. Non si rendevano conto che quello che vivevano come impegno politico per restaurare qualcosa del passato (non loro ma di altri) prefascista, era invece persistenza di una utopia, alla quale mai la storia nel nostro paese aveva dato corpo: l’utopia di una società più giusta, più umana, più laica, quella stessa per la quale si muoveva con intransigenza il partito radicale, sia pure fra incertezze e contraddizioni. L’errore – l’ho già accennato – era anche quello dell’autosoddisfazione involontaria, derivante dalla scelta di una comunicazione interna ad una comunità di non più di quarantamila, cinquantamila lettori.

In questo il Partito Radicale di allora era, molto più che del nostro Partito Radicale di oggi, l’antecedente del Manifesto. Ho sempre sostenuto che i veri radical-borghesi, cioè un certo radicalismo che era rappresentato dal Partito Radicale negli anni cinquanta, negli anni settanta non era più rappresentato da noi ma, anche come maggiore fedeltà esteriore formale, dai compagni del Manifesto: i quali, facendosi il loro giornale, comunicando all’interno dei loro 70/80 mila lettori, spartendosi con essi il pane, il corpo mistico e la comunione dei santi della produzione di alta classe del “Manifesto” (con i suoi bei pezzi di analisi ideologica, i suoi corsivi politici, e il compiacimento del “come siamo bravi”, del “come sono bravi”) in realtà hanno ripetuto gli errori e la cultura elitaria, aristocratica del Partito Radicale di allora, che era il Partito Radicale “anche” nostro, ma in primo luogo dei Valiani e dei Paggi, dei Serini e dei Cattani.

Ma torniamo alla nostra esperienza. C’è questo mistero: tutto è andato distrutto; pensate al PSIUP, pensate ai gruppi, pensate a Potere Operaio; non ci sono sigle, ma non ci sono nemmeno persone che abbiano potuto reggere negli ultimi cinquanta, sessanta anni, quindi per quel che direttamente ci riguarda della storia politica italiana, come noi abbiamo retto e stiamo reggendo ormai da vent’anni. E dobbiamo chiederci, dobbiamo chiarirci da laici (poiché non crediamo che ci sia un verbo preesistente che prenda fatalmente corpo nella storia umana e civile) cose c’è dietro questo apparente mistero: come mai proprio noi abbiamo potuto reggere, cioè i più scalcinati, apparentemente quelli fra tutti teoricamente meno muniti. Sappiamo invece che teoria e durata sono due volti della stessa realtà. Senza teoria non avete durata perché, senza teoria, con l’attivismo ci si “fa fare” e non si “fa” attività, con lo spontaneismo ammazzate la spontaneità e non la esaltate e nutrite, così come con le sbronze razionalistiche si ammazza anche la razionalità e quanto di razionalità deve presiedere alla organizzazione.

La risposta è in quello che considero (ed è una affermazione che non mi stancherò di ripetere fino a quando la considererò sostanzialmente esatta) l’unico segmento di teoria politica nuova dell’organizzazione o della prassi partitica che io conosca in Europa negli ultimi quindici anni: è nello statuto del Partito Radicale, votato a Bologna 11 anni fa ma che in realtà rappresentava già la sintesi di battaglie in parte vincenti come erano state quelle del movimento studentesco degli ami cinquanta (la nostra Unione Goliardica) e la vittoria – se volete – di certe eredità rivendicate e ancora oggi non conosciute già di quel nostro Partito Radicale di allora. È la ragione per la quale non sono molto d’accordo nel parlare di “nuovi” radicali: perché ritengo che siamo degli antichi radicali tutti, ma anche perché ritengo che esista un rapporto di profonda continuità con il vecchio Partito Radicale, al di là delle diverse scelte di opportunità che noi compimmo rispetto a una parte di quella classe dirigente.

Quando vedo uno storico, un sociologo, un politologo – non si capisce ormai più bene come definirli – come Massimo L. Salvadori (un tempo, ora la L. è caduta mentre è ancora vivo ma un po’ dimenticato l’altro Massimo Salvadori antifascista e radicale) e altri, recuperare per i lettori di “Mondoperaio”’ o di “Panorama” Kautski ed altri pensatori del movimento socialista (non direi del movimento proletario, internazionale) non posso dimenticare che nel momento costitutivo del Partito Radicale Mario Paggi motivava la sua scelta parlando a lungo proprio di Kautski. E a evocare in sede politica Kautski, Luxembourg, allora, nel ‘54/55, erano solo i radicali. Così avevamo un uomo dal radicato opportunismo, come Leo Valiani, nel quale – lo vediamo ora – il senso dell’opportunità e del potere prevale sempre rispetto alla fiducia nelle idee, nel dialogo, nel confronto politico, nella tensione ideale. L’opportunismo è una pratica politica, certo corrotta e corruttrice che può però avere tutta la dignità della tradizione del radicalismo francese di Gambetta, rimasto sempre attento ai progetti ideali perché in qualche misura e contraddittoriamente ha continuato a crederci; mentre il trasformismo, che è la versione italiana dell’opportunismo, in Crispi, e soprattutto nella sinistra storica, è stato invece l’abbandono cinico di qualsiasi fine a favore di esclusivi disegni di potere. Ebbene in quel Partito Radicale un opportunista come Leo Valiani anticipava discorsi che oggi sentiamo fare come attuali all’interno del perimetro di “Quaderni Piacentini”, dove lentamente si comincia a prefigurare come un futuro per tutti noi interessante lo sviluppo di spunti e accenni che furono giustamente abbandonati all’inizio della vita del Partito Radicale perché – ed io ne sono convinto – erano già vecchi e inutili.

Il nuovo che s’annuncia a partire dalle altre formazioni è destinato ad essere travolto perché manca, a mio avviso, della possibilità di far tesoro – lo ripeto – di quel segmento, unico forse, europeo, di teoria dell’organizzazione politica che è nel nostro statuto. È un limite, il pudore che a volte noi radicali abbiamo, o alcuni nostri compagni hanno in questi convegni, di apparire ineleganti, di autocitarci, di rivendicare e sottolineare la centralità, anche rispetto ai temi della crisi attuale, di quello che possiamo chiamare il “pensiero radicale”, individuato attraverso i segni che pur ha lasciato. Dobbiamo recuperare il significato della teoria. In altre occasioni ho già insistito sulla necessità di recuperare almeno la nozione che la parola rivoluzione è termine scientifico, preso dalla fisica, che indica la rivoluzione di un corpo intorno a sé stesso: una nozione che è stata assunta nel linguaggio politico da chi credeva alla rivoluzione continua e nonviolenta, alla rivoluzione come processo, come situazione e luogo ben individuati, e invece ha finito per significare a lungo l’opposto. Così per la parola teoria. Pensiamo un istante: io ritengo molti dei nostri compagni teoricamente ferrati perché teoria significa anche: “una lunga teoria di fatti” ecc… Ho detto spesso: una lunga teoria di formiche che camminano.

La coscienza unitaria di una lunga teoria di fatti è forse recuperabile, più che attraverso le forme della saggistica attraverso quelle della comunicazione narrativa – cioè storica – della conoscenza e di una conoscenza dialogica. Quando abbiamo approvato lo statuto era il maggio 1967, Il partito era composto da non più di 70/80 radicali, a metterci dentro anche i malati e i dormienti. Eravamo diventati in quattro anni quelli della marce, dei capelloni, dei provos, della sede squallida e zozza, dove si scopava nei gabinetti, in cui ci si riuniva, si ciclostilavano i volantini e si preparavano i cartelli-sandwich, in cui arrivavano le denunce e i primi mandati d’arresto, in cui già apparivano attivi gli omosessuali, dove veniva Pietro Valpreda. Era una sede importante, in base alla teoria politica dell’organizzazione socialista e libertaria che applicavamo. Amadeo Bordiga a Roma veniva a fare le riunioni da noi, Livio Maitan si riuniva da noi, e i giovani provos si riunivano da noi, Valpreda e i suoi compagni venivano a stamparci i loro comunicati, il movimento studentesco ne poteva fare la sua prima sede esterna. E già allora vi trovavano il punto ufficiale d’incontro iraniani e sud-vietnamiti, disertori e latitanti, e divorzisti e cristiani anticlericali, socialisti e comunisti uniti in formule nuove d’azione e di dialogo. Non credo fosse possibile riunire nella stessa sede un campionario così diverso senza che un nuovo nocciolo teorico, dentro, certissimo, ci consentisse un comportamento sconvolgente tradizioni opposte e univoche. Questo microcosmo prefigurava già la nostra centralità, ed era la centralità di un “luogo politico” che era “frequentato” non solo da Pino Pinelli ma anche da Luigi Calabresi. Questa centralità, questa esperienza, questa storia può venir fuori soltanto dalla narrativa: e ancora deve essere scoperta.

Questo tipo di gente, così come eravamo, d’un tratto sente il bisogno di qualcosa di cui nessun’altra forza politica avvertiva l’importanza. C’è stato poi, è vero, Paolo Ungari che quasi contemporaneamente riuscì a far pubblicare al Partito Repubblicano perfino un libretto dal titolo “Il partito nuovo”. Paolino Ungari adesso sa quanto era nuovo il partito e lo statuto che aveva preparato, perché ora non so neppure se potrà andare al congresso repubblicano, e ci andrà solo alla condizione che non sia pericoloso per il suo “nuovo” partito. Ma salvo questa eccezione, l’unico gruppo politico che si faceva carico dei problemi della teoria e della prassi dell’organizzazione politica erano queste 70/80 persone, che producevano questo statuto nel fuoco di durissime e varie lotte militanti.

Se lo rileggo oggi, da parlamentare, vi trovo come un salto, un’incursione in un terreno apparentemente non suo, in un documento pure così attento alle derive, ai fatti possibili delle nostre progettazioni. È lì dove si vieta sostanzialmente al gruppo parlamentare di vincolare a disciplina di gruppo gli eletti radicali. Nel 1967, lo statuto di un partito tutto impegnato ad organizzare quello che oggi si chiama il momento della società civile (momento comunque equivoco, magari nel senso non necessariamente negativo della parola) fa questo salto in quel periodo impensabile, compie uno sconfinamento sul terreno istituzionale e stabilisce che, se c’è un gruppo parlamentare che si definisce radicale, questo non può avere disciplina di gruppo, non può vincolare i propri componenti con votazioni di maggioranza. È, se ci pensate, l’essenza del problema che oggi abbiamo in Parlamento, perché non è compatibile con questa norma nulla di ciò che invece oggi si pratica e snatura nel Parlamento repubblicano. Se ricordate, all’inizio della legislatura ponemmo come unica condizione per fare gruppo unico con il PSI, per iscriverci noi radicali al gruppo socialista, l’accettazione di questa norma. Era forse per garantire a noi quattro la nostra libertà corporativa? E chi ce la toglieva? No, era per cercare di far conquistare al socialismo italiano ufficiale questa dimensione attraverso l’accordo con i radicali, e rendere più liberi e responsabili non noi quattro soltanto ma tutti i deputati del gruppo socialista. Non a caso furono unanimi nel respingerla, nel ritenerla impensabile. Non a caso i Bobbio, i Salvadori, “Mondoperaio” di queste quisquiglie non si occupano. Non riesco in realtà a emozionarmi per il rinnovamento e il nuovo prestigio di “Mondoperaio”. Certo “Mondoperaio” è diverso da quello di tre anni fa, ma soprattutto sul piano formale. È pur sempre qualcosa che non dà vero fastidio. Non riesco a capire cosa ci sia poi di così sconvolgente in certe dissepolture di “Mondoperaio” (disseppellire: questo è il metodo principale di Norberto Bobbio che non a caso è divenuto il nuovo pontefice del pensiero socialista). Ne è una dimostrazione lo stesso modo con il quale hanno contribuito a recuperare e quindi ad incardinare nel nostro linguaggio politico una parola perversa, pervertita e pervertente come quella di “pluralismo”, che in Italia è inequivocabilmente marcata e inchiodata al peggiore pensiero cattolico e a quello fascista, per poi essere costretti a distinguere contrapponendo, attraverso le loro esercitazioni, al pluralismo organicistico il pluralismo conflittuale, e così via. Mentre io continuo testardamente a sostenere che non mi interessa: tutto quello che dicono esserci dietro la parola pluralismo, e dietro alle esercitazioni di ingegneria politica alle quali si dedicano, per me è laicismo e basta. Invece questi hanno vergogna di dire, di pronunciare le parole: laico, libertario. Erano invece proprio queste parole che erano dietro il nostro statuto. Ed io non vorrei, Massimo, che magari per esigenze di comunicazione, venisse un po’ dismessa anche da parte nostra l’accentuazione su queste due parole, su queste due caratteristiche, fondamentali nel la configurazione del partito.

Perché il fatto nuovo e importante dello statuto del ‘67 è che proprio dall’interno del movimento libertario, e da una forza politica che si proclama libertaria viene affermato e ribadito che il momento del diritto, dell’organizzazione, della procedura, della definizione delle regole del gioco è un momento necessario per qualsiasi forza che voglia essere davvero libertaria, liberatoria, liberante. Prende così corpo concreto, di statuto, nel 1966 la nostra polemica rispetto a quei paleoanarchici secondo i quali invece ci sono all’origine un uomo e una società buoni, incorrotti e non-violenti, ma poi arrivano lo Stato e le leggi a corromperli. E quindi si debbono “abbattere” lo Stato e le sue leggi, non solo i tiranni.

A questa visione anarchica noi contrapponiamo la nostra concreta vitalità (non il nostro vitalismo) libertaria verificando, invece, che il diritto in moltissime circostanze storiche è alternativo alla violenza, è l’alternativa storicamente possibile alla violenza. Lì dove le differenze naturali, le differenze di specie, le differenze anche ideali, economiche e fisiche, sono lasciate incontrollate senza che del le regole del gioco vengano pretese da ogni partecipante alla vita di questa o quella “foresta”, lì vige la legge “naturale”. Nemmeno – cioè – quella – successiva – del taglione che, almeno essendo legge, è già meno barbara, ma la legge “di natura” per la quale il più grosso mangia il più piccolo, e il più forte e il più furbo s’impone al più debole. E questa è paradossalmente la società che i nostri compagni anarchici di un certo tipo hanno invece a lungo invocato come momento di originale purezza, mondo dal peccato originale. Noi abbiamo invece avvertito che nello statuto di un partito è implicita anche la prefigurazione di un progetto e un programma di società e di comportamento. È appunto teoria. È anche uno scenario. Se voi lo leggete in un certo modo – come le buone leggi – è uno scenario essenziale: prima si fa questo, poi si fa quest’altro, poi quest’altro ancora. Può essere narrato, il nostro statuto. E infatti per le uniche interpretazioni che mi sono trovato a dare dello statuto su “Notizie Radicali”, bastavano le quindici righe: nel nostro partito questo non è possibile, è possibile quest’altra cosa, ecc…

Il motivo del “mistero” del nostro vivere e crescere come forza politica è dunque anche l’aver da libertari affermato questo in concreto. È l’aver tratto pratiche concrete conseguenze agli inutili e dotti enunciati di Lelio Basso, e dei marxisti più intelligenti i quali, dopo aver polemizzato in proposito con noi, cominciavano proprio in quegli anni a sostenere che una delle riprove della necessità dell’alternativa socialista e della rivoluzione proletaria del nuovo “Terzo Stato” era data dalla obiettiva evidenza del fatto che solo in questa nuova dimensione della rivoluzione socialista le idealità borghesi potevano trovare attuazione. Basso pensava soprattutto a quelle della rivoluzione francese, noi pensavamo anche a quelle di Bertrando Spaventa, allo Stato di Diritto (non alla pratica politica di Cavour, della Destra Storica o della sinistra.) Non a caso Rosario Romeo e gli altri studiosi reazionari studiano soprattutto quel dato – positivo, progressista da certi punti di vista ma poi dai segni più diversi – che è rappresentato da Cavour e dai governanti “liberali”. Noi invece recuperiamo di quella esperienza storica l’utopia dello stato di diritto e non la pratica assolutistica e di classe attraverso la quale, per mantenere il potere, la borghesia era costretta a smentire le sue stesse idealità rivoluzionarie. Come mai studiosi e politologhi non hanno pensato un tantino di più a guardare a questo oggetto misterioso che è il Partito Radicale e al suo statuto?

Io credo che questo dipenda arche dalla scarsa consapevolezza, in ciascuno di noi, che lo statuto è l’unico documento organizzativo davvero ordinante-disordinante di una forza politica, che altrimenti non può alla lunga produrre altro che non-libertà e non-liberazione, “ordine” vecchio e putrefatto.

Ieri Panebianco vi ha ricordato, al solito, che esistono i referendum regionali: dico al solito, rendendo omaggio alla sua intelligenza, alla sua capacità di individuare i punti nevralgici della politica radicale, come già aveva fatto a proposito della nonviolenza. E voi sapete che in tutti i congressi in cui sono venuto, ho sempre detto che o ci sono i partiti regionali, o c’è una dimensione politica regionale della lotta politica radicale, o non c’è il Partito Radicale. Cosa vuol dire? Vuol dire che la lotta politica “nazionale”, per il nostro statuto, o è regionale o non è, con poi il valore aggiunto che è rappresentato dalla federazione centrale dei partiti regionali, un valore aggiunto del tutto relativo alle strutture dello stato nazionale, previsto per usare anche il momento necessario dello scontro con il Leviatano che abbiamo al centro e che rappresenta la continuità dello Stato nazionale comunque di classe, e autoritario e violento. Il liberalismo prefascista riusciva a realizzare certe garanzie di libertà all’interno, sociologicamente, del 10 o del 20 % del paese, a prezzo della libertà degli altri, che rimanevano esclusi. Come la possibilità della libertà e del benessere dell’Inghilterra era legata alla contemporanea rapina imperialistica dei diritti e dell’economia delle colonie, così, in Italia, la correttezza dello Stato di Diritto per una minoranza si fondava sulla rapina dei diritti fondamentali della grande maggioranza del paese.

Lo Stato nazionale ha conosciuto giacobinismi vari, di destra e di sinistra, ma su questa linea l’unica candidatura nazionale – e anche internazionale – l’unica proposta vincente, l’unico statuto di società moderna possibile è quello concepito dal Partito Nazionale Fascista: è il corporativismo, è il pluralismo organicistico, consociativo, del quale nessuno sottolinea abbastanza che le sovrastrutture fasciste erano sovrastrutture potenzialmente anche “democratiche”, se è vero come è vero che perfino il Gran Consiglio votò a maggioranza, democraticamente, l’estromissione di Mussolini e il suo arresto. Provate un po’, Paolo Ungari, a votare a maggioranza in direzione contro La Malfa! Non a caso, come sempre, le visioni manichee – fascismo-antifascismo – si sono rivelate non laiche.

Di fronte a questa ipotesi di società, il Partito Radicale è stato l’unico che deliberava di organizzarsi come federazione di realtà etniche, di realtà storico-culturali, di realtà umane e associative diverse, per aderire a queste realtà e storie diverse e in questa diversità acquistare la forza della “universalità Europea”, cioè della maggiore universalità storicamente possibile; è stato l’unico che prevede di articolarsi promuovendo organizzazione e forza di tutte le minoranze democratiche, che rappresentavano la grande maggioranza della società. La maggioranza non è composta da una folla o da asse indistinte, ma da tante minoranze, da tante diversità storiche, di scelta e di coscienza.

Eravamo lontanissimi da questa possibilità quando abbiamo pensato lo statuto. E proprio per questo realizzammo delle strutture provvisorie, ufficialmente diverse da quelle previste dallo statuto, ma ci dicemmo: fino a quando non nascono i partiti regionali, i partiti federati, l’organo deliberativo non lo chiamiamo consiglio federativo ma chiamandolo, anche formalmente, in maniera tradizionale, non ricordo se direzione o comitato direttivo. In realtà noi pensammo inconsapevolmente più che allo statuto del Partito Radicale, a quello del desiderato grande partito dell’alternativa. Questo è il limite di quello statuto, come di ogni teoria: ma è anche la sua forza. Era previsto per organizzare un’alternativa democratica, quindi di massa, quindi maggioritaria. Era una proposta fatta agli altri per delle nuove regole del gioco. Mi pare che Panebianco, da quello che ho scorso, sia pure per altre vie dice che le due caratteristiche fondamentali dello scontro politico sono l’attualità – le attualità specifiche, diverse, che si confrontano nella politica – e la procedura: quindi il modo e il luogo, perché procedura è anche procedere, e si procede a seconda del terreno che si individua, se accidentato procedi in un certo modo, se piano procedi in un altro. Quindi ecco la prima affermazione, mi pare, del partito nuovo: il partito nuovo promuove “diritto”, assicura regole del gioco, rovescia la sensibilità apparentemente giusnaturalistica, apparentemente anarchica per la quale l’organizzazione è negazione della libertà. Anche Nietzche, che Panebianco cita, come i socialdemocratici risente di questo errore storico: che cos’è l’organizzazione? È il prezzo che dobbiamo pagare, di riduzione della libertà di ciascuno perché sopravviva almeno un po’ di libertà per tutti. No: questa è una visione perdente nella storia, destinata a far vincere e a prevalere l’opposta concezione, quella fascista, per cui bisogna organizzare l’autorità e solo a partire dalla organizzazione dell’autorità saranno anche possibili perimetri individualistici di maggiore libertà. Questa diventa vincente perché una teoria politica e un diritto che si fondano sul meno peggio, non sul pieno sviluppo, ma sul necessario sacrificio dei propri presupposti e dei propri principii mancano di tensione ideale e di fondamento positivo e quindi di prospettiva storica.

Rovesciando questa impostazione noi abbiamo riaffermato che la libertà, come l’amore, come ogni altro valore, è un “prodotto” sociale: anche quella famosa libertà interiore del carcerato nei sotterranei di un castello, del quale si dice che sarebbe più libero del suo carceriere, anche quella è il portato di una conquista antropologica, è un prodotto storico-sociale. Le impostazioni che presuppongono l’esistenza e la possibilità, al di qua del momento della organizzazione, di una maggiore libertà commettono l’errore individualistico e consumistico, quello di ritenere che tutti noi avremmo un quoziente individuale di libertà geneticamente individuato, biochimicamente forse un giorno individuabile, residente in questa o quell’altra cellula, che dobbiamo, per sopravvivere, costantemente sacrificare perché altrimenti se si vivesse liberi sarebbe la giungla e non la razionalità: ecco anche la razionalità sociale concepita come rinuncia e come sacrificio e non come prodotto di una visione per la quale l’organizzazione è l’unico modo di far vivere le libertà, anche quelle più intime. Non c’è fatto, non c’è valore (quale che esso sia: pensate all’amore, pensate al diritto, pensate al dialogo) che non presupponga una pluralità di corpi, cioè che possa essere pensato e realizzarsi altrimenti che socialmente e storicamente, obiettivamente organizzato.

C›è nello statuto radicale questa intuizione organizzativa, forse per la prima volta nella storia degli ultimi centocinquant›anni; da quando, con un certo comunismo libertario e utopistico, è sempre andata in crisi e si è sempre dissolta ogni candidatura di lotta politica libertaria e ogni prefigurazione di società libertaria, con la ricorrente caduta, poi, per effetto di questa crisi, nella disperazione oggi della droga, ieri del la bombetta, dell›emigrazione politica, dell›andare da Rousseau, dell›andare da Robinson Crosuè, o dell›andare a Brooklyn, in California o sulle montagne di Massa Carrara: questa ricerca continua da parte dell›anarchico, dell›“altrove”, del luogo buono, del luogo non contaminato dalla storia, che ci viene anche da un certo modo di essere cattolici, di guardare alla realtà che ci insegue.

Credo invece che per la prima volta noi radicali abbiamo tentato di realizzare nella organizzazione un progetto di promozione della e delle libertà, anziché di creazione del e dei poteri. Possiamo realizzare e portare avanti questo tentativo, rivendicando, a partire dalla equivocità storica del concetto di diritto, la possibilità, direi quasi la necessità che è proprio nel diritto che c’è l’anti-potere, è proprio nel diritto, se viene affermato in un certo modo, che c’è la negazione del potere. Questa è il segmento di teoria che io leggo nel nostro statuto e di cui non trovo corrispettivo né in “Mondoperaio” né negli scritti dei migliori dei nostri amici. Perché i migliori dei nostri amici sono sempre perdenti? Perché sono commentatori di disastri già avvenuti o evocatori di disastri futuri? Avete sentito ieri nell’intervento di Rodotà: Stefano pensa che Giuliano forse pensa… e si preoccupa di questo. Ma questi nostri migliori amici, piuttosto che preoccuparsi di quello che pensa Giuliano nell’ultima frase del suo articolo su “Panorama”, si preoccupino di più, magari senza la mediazione radicale, magari senza dover incorrere nella preoccupazione di essere tacciati di essere radicali, di quello di cui invece bisogna farsi carico, cioè ad esempio di quello che da due mesi sta avvenendo alla Camera dei deputati, dove la violazione del diritto esistente sta diventando sistematica, deliberatamente distruttrice degli alvei statutari e anche costituzionali.

Io mi sono raramente sentito tanto radicale in sedi “politiche” come nell’episodio del congresso repubblicano di Genova, a cui (altri direbbe andando “in partibus infidelium”, mentre noi ci potevamo sentire radicali a casa propria) partecipai semplicemente per dire una cosa semplicissima: che era gravissimo che un partito non rispettasse una sentenza emessa da un collegio di probiviri che aveva eletto quasi all’unanimità, ed emessa sulla base dello statuto e del diritto interno che esso si era dato. Nel nostro statuto non ci sono sanzioni, non ci sono probiviri, non ci sono espulsioni, nulla di tutto questo. Invece, nel momento in cui il diritto viene sacralizzato come fondamento della sanzione, regolarmente accade che chi di spada cerca di ferire servendosi del diritto, di spada perisce. E l’augurio che ti faccio, caro Paolo, è che tu sia ferito della spada repubblicana e non ne perisca, anche perché sei qui – ed è buona difesa – e te ne ringrazio. Ma guardate ancora al caso Moro, alla vicenda drammatica di questi giorni. Stiamo da settimane ormai, quasi ogni giorno inutilmente chiedendo che il Parlamento dibatta del caso Moro. In questa situazione viene fuori il socialista Craxi che, non potendo dire alle Brigate Rosse “non si ammazza mai nessuno, in nessun caso, non si sequestra nessuno”, propone trattative, propone di trattare non so cosa, non si capisce bene con chi. Io, che ho sempre protestato contro non solo l’Asinara ma da sempre anche Regina Coeli, – e non solo visitato – io posso dire con qualche efficacia che il sequestro Moro è ignobile, posso dire alle Brigate Rosse: vi rimprovero una cosa soprattutto, di essere simili a coloro che dite di combattere.

Non lo può – se non per il loro diritto a contraddirsi – Craxi, non lo possono i compagni socialisti che proprio in questi giorni hanno consentito che fosse approvato dal consiglio dei ministri un disegno di legge che prevede il perfezionamento e il potenziamento definitivo dei tribunali militari fascisti. È un disegno di legge di iniziativa governativa, ma nella sostanza è il progetto Balzamo. Ed anche la legge sull’aborto si chiama legge Balzamo. Non solo si è impedito, con arbitrio servile, dalla Corte Costituzionale il referendum contro la giurisdizione militare fascista ma ora, con il doppio grado d’appello, avremo una giustizia militare sempre più di casta, sempre più autonoma, più forte, più ricca.

Penso che un partito come il nostro, che non consente al proprio interno dei processi, che si rende conto che è inutile sperare che ci si possa difendere dalla violenza ammazzando il violento, è l’unico che fornisce sin d’ora, sin da sempre – nei fatti e non con strumentali e intermittenti polemiche – una risposta al PCI e alla DC, uniti dal peggio delle loro tradizioni, uniti dalla convinzione che bisogna violare la Costituzione, i regolamenti parlamentari, mantenere e peggiorare le leggi fasciste se “la Patria” lo impone. È ciò che certi politologi chiamano democrazia consociativa: è concettualmente una cialtronata, e una cialtronata pericolosa, non tanto per dolo quanto per colpevole, comoda superficialità. Ogni volta che c’è una violazione di legalità, ogni volta che più evidente appare la crisi istituzionale della Repubblica ci richiamano all’andamento contraddittorio della nostra società, ci ricordano che ci sono i consigli regionali, i comitati di quartiere, i consultori per l’aborto, tutto questo consociazionismo appunto, come se fosse democrazia di base e non fossero invece fondamenti di rincalzo di una piramide, quella sempre più pesante del potere. In questo convegno sono state citate molte cose, ma forse non sono state citate le mozioni del nostro congresso di Firenze del ‘67 e di Torino del ‘72, quando scrivevamo più o meno “… ministri e burocrati democristiani e comunisti che amministrano il potere reale …”, in polemica già allora con i miti della democrazia di base e dell’unità sindacale interclassista e unanimistica che si andava delineando. Bisognerebbe rileggerle, riscoprirle, quelle mozioni.

Dobbiamo continuare sulla strada che ci è indicata dal nostro statuto. Per questo mi è parsa giusta la decisione di Adelaide di sospendere le attività “azionali”, divenute alternative a quelle statutarie, del Partito. Vogliamo diventare anche noi quelli che – perché la storia non ce lo consentirebbe, perché non saremmo maturi – continuiamo a vivere contro la nostra costituzione, con un unico centro nazionale, e senza di fatto partiti regionali? E poiché le cose sono gravi, ci teniamo il partito unico nazionale e non creiamo le diversità federate dei partiti regionali, non ci preoccupiamo di fare i referendum regionali, non intraprendiamo lotte regionali? Ma questo è il riflesso abituale, sono le motivazioni di chi ci governa, dei principi che ci governano da trent’anni: che continuano a ritenere che magari la pena di morte non è necessaria, l’ergastolo però lo è, e comunque l’ordine non può che fondarsi sulla violenza e sulla paura e che mostrano di ignorare che la fucilazione sul posto, senza processo, è ormai legge non scritta ma ferrea nel nostro paese, per passanti, paurosi, ladri di polli, cittadini distratti o sospetti? Non mi interesserebbe vincere o perdere il referendum sulla Legge Reale, se poi fosse persa per sempre nella storia di un partito e di un paese l’utopia liberante, libertaria e liberale dello Stato di diritto. E certo sarebbe persa per sempre questa utopia, se si lasciasse passare anche per un solo giorno nel Parlamento o nel paese, senza contrastarlo, il principio che per affermare l’ordine e la pace sociale e per combattere i violenti è necessario aumentare la violenza delle leggi e dello Stato contro i deboli, aumentando i privilegi dei peggiori potenti, che solo il timore di questa violenza può costituire un freno o un deterrente per il violento.

C›è chi si duole che noi diciamo che “Repubblica”, rispetto a tutto questo, fornisce una informazione scorretta e falsificante della realtà solo perché esistono quelli che i francesi chiamano “grains de beautè”, alcuni bei “nei” anche sulle colonne di “Repubblica”: sono disposto a riconoscere che la famiglia Rodotà rappresenta su “Repubblica” due grani di bellezza, due néi di informazione corretta e onesta rispetto ad una informazione perfidamente, sistematicamente e sporcamente scorretta. Ma se la nostra è una cultura alternativa, è – deve essere – anche una antropologia culturale alternativa. Abbiamo riproposto e continuiamo a riproporre alla Camera la riforma della polizia. Perché? Perché antropologicamente noi sappiamo che solo una polizia le cui donne e i cui uomini vivano come ciascuno di noi e accanto a noi, facendo parte del nostro stesso corpo sociale, con i figli che nascano e crescano assieme coi i nostri figli e quindi conoscendosi, solo questo può in termini di antropologia culturale e nel tempo di cinque o dieci o trenta ami concorrere a creare la possibilità di una prevenzione sociale pilotata che si realizzi attraverso il lavoratore di pubblica sicurezza che vive nella dimensione non della caserma ma del fabbricato, della via, del quartiere, e ne ha bisogno, perché con essa riconquista anche la dimensione autogestionale delle istituzioni. Altrimenti, fra cinque o dieci o trenta ami (la società nucleare che si prefigura oggi) avremo uno Stato potentissimo che cercherà di riproporre il mito dell’opulenza, avremo dei nuovi socialisti come Mitterrand che diranno che il socialismo è concepibile solo a partire dall’opulenza e non dalla povertà e che quindi in realtà avremo solo due possibili strutture: avremo il nuovo clero dell’energia, il nuovo clero del sapere, delle cinque o sei cattedrali di una società che dovrà difendersi dal pericolo che le ostie, il corpo della sua storia, il plutonio, non cada nelle mani dei terroristi, di pochi brigatisti, del dissenso organizzato. E l’organizzazione militare di questa difesa sociale sarà l’unica possibile. Certo, c’è una tentazione. Alla Camera dei deputati, in Parlamento, ci sono forse i pochi veri “grands commis” di questo Stato – parlo dei funzionari – e l’ideologia che vedo farsi strada negli uffici (mi auguro che non sia definitiva) è una ideologia, nel senso ancora una volta più pulito e grande del termine, fascista. Come si esprime questa ideologia? I termini di giustificazionismo storico e di collaborazionismo: di fronte al fatto storico ormai ineluttabile (mentre più semplicemente è già realtà di ieri e d’oggi) della grande coalizione d’interessi che vede uniti DC e PCI, Chiesa cattolica e comunisti, padronato e sindacati non dobbiamo – essi pensano – peccare di formalismo, dobbiamo ricordarci che il fiore del diritto può nascere su qualsiasi letame della storia e abbiamo il dovere di concimarlo, non dobbiamo cercare d’imporre la continuità di un’idea, di una forma, quando in realtà già la necessitante forma è un’altra. E quindi – dicono – forniamo al nuovo tiranno gli strumenti per queste sue vittorie marginali e contingenti di questi giorni, per poi divenire essenziali, e poterlo condizionare, o condizionare la realtà della quale sarà stato il demiurgo, perché non ne sia il leviatano… non abbiamo obiezioni di principio o moralistiche contro il servizio come mestiere. Ma servire sempre e solo il passato, quel che è già sintesi storica compiuta, e non il presente diverso e il futuro non ci appare nemmeno conveniente.

Un’altra cosa, dunque, nel nostro statuto mi pare essenziale. È iscritta nel nostro statuto la fiducia nel diritto di coscienza che nasce, o può nascere come giuridicità, come norma istituzionale, nella vittoria che può avere levatrice la nonviolenza. Quella esclusione della sanzione, della possibilità di espellere, di punire, di accogliere e respingere le iscrizioni, si giustifica solo se si fonda sulla fiducia nel dialogo e nella non violenza. Il nostro non è uno statuto di deboli, di gente che si rassegna ad essere vittima, che si offre in pasto cristiano agli avversari. No. Né di eroi. Siamo “anche” forti e riteniamo che la forza sia anche in questo. Grazie a questo abbiamo potuto dimostrare innanzitutto a noi stessi che in questo partito non sono più possibili egemoni e fatali, i tradizionali guai e disastri propri delle teorie e prassi organizzative della sinistra. Il partito che in apparenza, per statuto, per calcolo consapevole, era il più aperto e il più indifeso è stato il meno inquinato, quello in cui le infiltrazioni sono state meno possibili, quello che è andato più avanti, a differenza di partiti, gruppi e gruppettari che si sono affidati all’illusione della difesa anche violenta della struttura partitica alla illusione della spada. Con la violenza cosiddetta rivoluzionaria, con le Brigate rosse, tutte le stragi di Stato sono state possibili. Perché la violenza è il momento unificante, in cui il Servizio segreto, il regime, Cefis, non so chi altri può obiettivamente trovarsi anche ideologicamente, in fondo, a scegliere le stesse armi e ad optare per le stesse strutture.

Molte altre cose avrei da dire. Vorrei concludere con una osservazione, questa. Stiamo attenti a non ritenere che esistano modi di vivere e di lottare omogenei al militante non intellettuale ed altri invece omogenei al militante intellettuale. Stiamo attenti, perché se una cosa ci insidia è questa: se andiamo avanti, fra un anno si renderà omaggio alle nostre nozioni e quindi si renderà omaggio ai nostri uomini che appariranno uomini di nozione. Al di là delle loro intenzioni, si cercherà (si è già prefigurato a Bologna) di contrapporre il rigore, la serietà, il senso di responsabilità degli uomini di nozione e delle nozioni rivoluzionarie al partito della rabbia, della scostumatezza, dei militanti paranoici ed “eccessivi”. Se c’è un momento in cui sono necessari, non la provocazione che non uso mai, ma la durezza e il più fermo rifiuto alla richiesta che ci viene rivolta di lasciare le nostre “armi”, tutte le nostre armi, dalle “nozioni” alle “scostumatezze”, nel vestibolo, all’ingresso, questo deve valere soprattutto nelle università, sui giornali, alla radio e alla televisione. Noi, quando abbiamo le pezze al culo, possiamo forse anche accettare di vivere regole e luoghi sociali e un’educazione diverse vittoriane o neo-borghesi, ma non possiamo non prevedere fin d’ora – pena la morte politica di tutti noi – che si tenterà di separare, di annettere, di integrare qualsiasi radicale che proponga in modo non scostumato, cioè secondo il costume di classe del potere, e quindi con costumi omogenei a quelli del potere, quello che insieme abbiamo imparato e a cui stiamo dando corpo, ed è importante. Noi del gruppo parlamentare credo che abbiamo superato questo rischio. C’era infatti anche per noi. Lo abbiamo superato forse nel momento in cui abbiamo avuto intorno, urlanti, i commessi di Montecitorio perché non gli consentivamo di andare a casa a Natale o a Pasqua, il sabato pomeriggio o la domenica, perché già in quel difficile momento abbiamo provocato, senza direttamente volerlo, un rapporto già umano, perché in quel momento abbiamo magari poi appreso quanti figli aveva uno e quanti l’altro, e chi non ne aveva, la loro vicenda sociale o i loro itinerari civili. Anche all’interno delle istituzioni, oggi, lì dentro siamo tutelati proprio da questi comportamenti scostumati, dal fatto che abbiamo costretto presidenti della Camera a tornare all’improvviso da vacanze illegittime, abbiamo costretto i deputati a lavorare di notte, ad avere barbe lunghe e acconciature sfiorite.

Proprio perché ritengo che l’apporto di ciascuno di noi è ugualmente importante, e ritengo di essere io un prodotto della vostra presenza nel partito almeno quanto voi lo siete della mia, tanto più devo dirvi che ho sentito come gravissimo, in termini di teoria della prassi radicale, il fatto che dopo il congresso di Bologna la minoranza, che veniva individuata come la minoranza degli intellettuali del partito radicale, non abbia sentito il dovere di levarsi essa per prima, sui giornali, sui quali un tantino di più è ospitata, o con dichiarazioni pubbliche ed appelli, contro il modo ignobile con cui venivano presentate dalla stampa le conclusioni del congresso, le nostre decisioni sul finanziamento pubblico o il nostro cosiddetto colloquio con i fascisti, il nostro preteso radical-fascismo. E oggi il dovere degli intellettuali radicali, mi pare, non è quello di dialogare all’interno delle strutture bobbiesche o bobbiane, che rispetto molto, ma è quello di chiedere conto a queste strutture della continua censura della verità che, come leggono ogni giorno, viene fatta, oltre che di negare, superandolo e adeguando alla verità della storia del partito, il loro specifico, abusivo oltre che abusato.

Credo che la rispettabilità sia importante solo se se ne sa fare un uso coerente con la nostra moralità: usare la rispettabilità che acquistiamo contro i contenuti della rispettabilità altrui che ci vogliono sempre più praticamente imporre. Altrimenti si confonde la libertà con la libertà di scrivere solamente il saggio o l’articolo, nel linguaggio e nei tempi e luoghi altrui. Altrimenti si fa e nella migliore delle ipotesi, debite proporzioni fatte, come Benedetto Croce durante il fascismo che aveva la libertà di stampare presso Laterza le seimila copie della sua “Critica” e di scrivere alcune cose per sei o diecimila persone o per le biblioteche americane o europee, purché non scrivesse una parola del disoccupato di Spaccanapoli o del falegname arrestato il giorno prima, o non in modo tale da poter essere letto da centomila o milioni. Dobbiamo sempre di più parlare di teoria e di prassi radicale e discuterne, ad una condizione: che poi chi nel gioco delle nostre parti si occupa soprattutto di riflessione sulla teoria sia poi il primo a difendere il partito e la verità contro coloro che vogliono chiericamente fare del “sapere” e della sua comunicazione un monopolio e un’arma per mantenere cieca e sorda la generalità, riservando i diritti della conoscenza a diecimila o centomila persone, libere di ben leggere, e quindi di leggere anche Panebianco che si esprime soprattutto attraverso il saggio. Ma se Panebianco dicesse ogni tanto due parole di quelle che noi solitamente siamo costretti a pronunciare contro gli scippi di verità e legalità, consentirebbe ad alcuni di noi, che forse amano anch’essi la teoria, credono nella teoria, forse danno più d’altri consapevolmente corpo alla lenta, lunga teoria di fatti radicali, civile, alternativa, di dare anche noi il contributo della nostra riflessione, delle nostre sistemazioni, teoriche o organizzative, di teoria della prassi e magari anche quella della conoscenza.

Ripeto: non deve esserci nel Partito Radicale questa duplice tendenza di cui ho sentito parlare, di chi ritiene drammatica la situazione politica che viviamo, e di chi ritiene invece che la si drammatizzi per garantire attraverso la tensione della drammaticità una unità che non si saprebbe altrimenti garantire con un pieno confronto democratico. Il problema non è questo. Personalmente so che in momenti come questi produco molto meglio, e comunque sto molto meglio. Ma so anche che la realtà è questa e non è drammatizzazione arbitraria. So che “produco” meglio, non che “vivo” necessariamente meglio. Non è neppure ipersensibilità dire che viviamo un’epoca come l’hanno vissuta gli antifascisti all’inizio del fascismo e durante il fascismo; o come vivevano i salveminiani e i socialisti, i cafoni e i riformatori nel sud giolittiano di prefetti e mazzieri o come i dissenzienti liberali radicali repubblicani e socialisti – non le fronde – sotto il potere monarchico. E se giusto e pertinente è il richiamo al “Non mollare”, dobbiamo però essere capaci di far vincere i motivi del “Non mollare”: quei motivi che sono sempre stati politicamente ammazzati e vinti, per i limiti storici di coloro che dovevano non mollare e ai quali dobbiamo l’acquisizione della moralità politica del non mollare (non nostri maestri e nostri padri, io li considero come miei coevi, compagni a cui si deve rispondere delle cose che si fanno). Ma proprio per questo, basta con questa storia di sconfitte e di fallimenti. Il nostro modo di essere radicali è stato diverso: è stato il modo di chi ha sempre avvertito, contrariamente agli altri, che non c’era nulla da restaurare, che bisognava avere teoria della pratica, teoria dell’organizzazione, che bisognava avere l’ambizione e la capacità di rappresentare le maggioranze perché le minoranze non esistono al di fuori delle maggioranze. La vera minoranza storica è quella che ripete in sé stessa gli elementi essenziali di crisi di identità di tutte le altre minoranze di cui le maggioranze si compongono. È vero l’assioma democratico che nella democrazia politica la minoranza di oggi è la maggioranza di domani, ma a condizione che contenga in sé le virtualità di vita e di crescita capaci di sviluppare delle altre minoranze. Altrimenti sarà una minoranza di potere e poi sarà una maggioranza di potere; cioè una volta al governo, sarà una minoranza violenta, sopraffattrice anch’essa, anzi, lo è già nell’atto, non solamente in potenza.

Credo che in fondo l’essere radicale non debba esser definito, che “fare”, essere radicale è forse oggi “necessario” ad un numero sempre maggiore di persone; ma allora che si sappia chiarissimamente che si fa il radicale nella precisione e nell’umiltà dei giorni e delle opere, e a misura di questi, non dell’eterno. Per esempio, gli uomini del sapere giuridico sappiano e riflettano che è inutile che ci spieghino grandi cose su concezioni future o sui rischi futuri del presidenzialismo se loro, i chierici di questo sapere, non contribuiscono, se volete, a chiericizzare la gente o meglio a laicizzare la loro verità. Mi riferisco a tutti coloro che sanno leggere l’enorme gravità, la pesantezza letale delle cose che noi denunciamo ogni giorno alla Camera dei deputati, e sanno leggere anche l’enormità della menzogna della cronaca politica a cominciare da giornali come “Repubblica” e “Il Messaggero”, dal “Tg2” e “Gr1”.

Su questo termino perché mi accorgo di aver appena cominciato. Resto convinto che una teoria del partito nuovo è oggi necessità di tutti i partiti e tutte le democrazie. Resto convinto che la lotta che stiamo conducendo in Parlamento è una lotta fondamentale perché rischiamo fra tre, quattro o cinque mesi di veder ridotta anche la situazione parlamentare a conclusa e conclusiva menzogna. Ritengo che siamo riusciti a dare testimonianza, modesta ma certa, che pregiudica anche ogni possibile nuova teoria e prassi di nuovo partito socialista e libertario, che oggi è possibile una battaglia in Parlamento, come dovunque: e se è possibile in Parlamento, pensiamo quanto è possibile altrove! Questo affare dei referendum regionali, il non averne fatti o tentati molti, con il nostro statuto, è una vergogna per noi. Che vale avere una costituzione democratica e non usarla? Che vale avere l’istituto del referendum nella Regione e non dar corpo al momento referendario della vita democratica e istituzionale? Che vale dirsi: ma non abbiamo la forza! E allora di cosa avremo la forza mai? Di presentarci alle elezioni, di amministrare la fontana? La nostra forza è nella nonviolenza, è nella consapevolezza che anche la creazione di una legge diversa – e di vita! – passa attraverso il dar corpo da tutti i punti di vista, anche sessuale, alle idee in cui si crede. Lo statuto è già la teoria. Il grande fatto che dobbiamo rivendicare è la concreta storia – teoria di questi venti anni, la concreta storia dei nostri giorni e delle nostre notti, dei nostri fallimenti che anch’essi ci sono, ma anche delle speranze che possono divenire diritto oltre che, come a volte rischiano di essere, privilegio di coloro che hanno la forza della speranza.

Bisogna però rendersi conto che l’ipoteca dell’assassinio del corpo storico radicale in questi due aspetti tradizionali (teoria e prassi) è in corso: passa attraverso l’informazione, passa attraverso la comunicazione, passa attraverso il cambiamento dei nostri connotati, della nostra identità, sicché nemmeno fra noi riusciamo a riconoscerci. Possiamo opporci a tutto ciò soltanto superando la paura di essere radicali. Perché io credo che chiunque oggi si renda conto di quanto grandi, relativamente a tutto il resto, siano la nostra teoria e la nostra prassi è giusto che abbia “paura” di essere o non-essere con rigore radicale. È giusto sapere che nella storia la tentazione e l’illusione della violenza è quella di liberarsi di queste ipoteche in modo violento e radicale di destra, cercando di tagliare la testa e non solo di sparare alle gambe di coloro che dimostrano di saper non mollare riuscendo a non salvarsi l’anima, pur di salvare l’anima anche degli altri. Non mollare, mai!

(Intervento al convegno sullo statuto e sull’esperienza del Partito Radicale. Roma, hotel Parco dei Principi, 7 aprile 1978)

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